Sulla storia del Cristianesimo (3)


1.

Nonostante l’Impero romano, dal punto di vista strettamente politico e militare, goda di buona salute fino agli inizi del III secolo, al punto tale da apparire destinato a durare per sempre, numerosi sono i fattori di crisi intrinseci ad una struttura troppo ampia. Un primo fattore è la tensione perpetua tra un’organizzazione verticistica, che fa capo al potere assoluto di un solo uomo – l’Imperatore -, e l’estensione dell’Impero, che comporta una certa difficoltà di controllo delle periferie provinciali. La divinizzazione dell’Imperatore, che tenta di dare ad esso il significato simbolico di rappresentante universale delle tradizioni culturali e spirituali e, dunque, dell’unità dell’Impero, urta contro il fatto che quelle tradizioni, tipicamente romane, hanno scarso peso via via che ci si allontana da Roma.

Il secondo fattore è lo squilibrio sociale, che contrappone ad una ristretta cerchia di funzionari e proprietari terrieri ricchissimi una massa sterminata di cittadini liberi (artigiani, commercianti, ecc.) sempre sul filo dell’indigenza, e di schiavi privi di ogni diritto.

Il terzo fattore è l’inadeguatezza coesiva della cultura. Alla potenza militare e economica e ai codici di diritto non corrisponde una quadro di valori culturali atti ad assicurare l’unità dell’Impero. I mos maiorum riguardano un mondo sempre più lontano nel tempo. La religione romana, che si fonda sulla pax deorum e sull’estensione del Pantheon, che raccoglie le divinità delle varie religioni dei popoli conquistati, è una religione prevalentemente cultuale, che non ha spessore spirituale né un orizzonte oltramondano. I ceti colti rimediano accogliendole influenze della filosofia greca e trasformando la religione in una norma di saggezza. I ceti popolari sono sempre più inclini a coltivare i culti misterici orientali e a cadere preda della superstizione.

L’Impero romano è, in breve, una società di esclusi, la cui prospettiva di vita è sostanzialmente mediocre se non addirittura miserabile. La gente umile si appella agli dei pagani per sentirsi al riparo dai mali: essi, che spesso tradiscono quest’aspettativa, non hanno alcun potere di promettere la felicità.

C’è insomma un humus fertile per una religione che promette la beatitudine della vita eterna. E’ la prospettiva escatologica, come già detto, l’arma vincente del Cristianesimo nei confronti del paganesimo. Nonostante il monito di Paolo di Tarso a non considerare imminente il ritorno di Cristo sulla terra, tale prospettiva si mantiene sino alla metà del III secolo. Essa è validamente supportata peraltro dall’organizzazione delle comunità cristiane, che, in una certa misura, anticipano il regno dei cieli. L’accesso alla comunità cristiana consente di rimediare magicamente all’esclusione sociale vigente nel mondo in nome dell’uguaglianza, come pure di avvalersi dell’aiuto materiale della comunità stessa. Ma la partecipazione comunitaria serve soprattutto a respirare l’aria dell’aldilà.

L’aspettativa escatologica consente di capire la reazione alle persecuzioni che, dopo una lunga latenza, si riavviano verso la metà del III secolo. Coloro che credono in tale aspettativa non hanno alcuna difficoltà ad accettare il martirio, che la realizza. Tra coloro che non hanno una fede salda si verificano invece non pochi tradimenti.

Il diverso comportamento dei cristiani di fronte alla persecuzione ravviva il contrasto tra due diverse concezioni ecclesiologiche, che si sono definite a partire dalla metà del II secolo: una settaria e rigorista, che fa capo ad una chiesa di puri, di eletti, contraddistinta da una forte tensione escatologica; l’altra "cattolica", vale a dire fondata sull’impegno etico del singolo a vincere le forze del male che in lui si annidano e sull’impegno della comunità ad assistere chi eventualmente cade.

Il tramonto dell’escatologia avviene, lentamente e naturalmente, in rapporto alla crescente distanza temporale dalla promessa di Gesù, che ha promesso il suo ritorno nel giro di una generazione.

In conseguenza di questo tramonto, la Chiesa accetta di considerarsi partecipe del processo storico e si pone come obiettivo la diffusone della buona novella a tutti gli esseri umani. A tal fine, però, occorre che essa si doti di un’attrezzatura teologica compiuta, di una solida organizzazione gerarchica, di una sociologia cristiana e di una liturgia.

L’originaria fede cristiana, come si è detto, si riduceva a due soli punti: l’unicità di Dio e la testimonianza di Gesù, Suo Figlio, che ha riscattato l’uomo dal peccato e dalla morte. Fino alla metà del II secolo, in altri termini, la teologia cristiana è null’altro che la teologia paolina. Essa vale a reggere l’urto con il politeismo pagano e con il monoteismo assoluto di tipo giudaico. Rimangono però due problemi destinati a pesare sulla storia del Cristianesimo: per un verso, il rapporto tra Padre e Figlio, e, per un altro, il rapporto di Dio, mediato dal Figlio, con il mondo (problema della creazione) e con la storia (problema della redenzione).

L’organizzazione gerarchica è incentrata sul clero, il cui capo è il vescovo. Verso la fine del II secolo l’importanza della comunità romana cresce fino al punto che il suo Vescovo assume la funzione di coordinamento della Chiesa: diventa insomma Papa. Il Papa, in questa epoca, è il primus inter pares tra i vescovi. La definizione del suo potere assoluto e della sua infallibilità dottrinaria sopravverrano a un secolo buono di distanza. La gerarchia ecclesiale assume definitivamente l’obbligo del celibato, e si fa garante dell’aspirazione ascetica che, originariamente, investiva tutta la comunità.

In nome del radicamento del Cristianesimo nella storia e nella società civile, a tale aspirazione corrisponde, tra il II e il III secolo, la centralità che il matrimonio acquista come istituzione capace di garantire, attraverso la procreazione, la continuità nel tempo della nuova religione. Praticato sino allora seguendo le leggi e le tradizioni dei vari paesi, il matrimonio giunge ad essere cristianizzato e teologizzato. La santità del matrimonio affonda le sue radici nel piano divino dello stesso Creatore che creò Adamo ed Eva. Generando i figli, i coniugi partecipano all’opera della creazione. Occupandosi della prole, imitano l’azione provvidenziale del Creatore. Si definisce così la concezione sacramentale del matrimonio.

Anche il culto funebre si differenzia solo lentamente dalla pratica pagana, incentrata sulla conclamatio mortis, che associa al dolore della perdita la minaccia che il morto può fare incombere sulla comunità. Essa viene lentamente sostituita dalla laudatio funebris, espressione della speranza cristiana che, con la morte, sarebbe cominciata la vera vita.

2. Cristianesimo e Impero

I rapporti del Cristianesimo con l’Impero romano, destinati a produrre la sostituzione del potere imperiale con quello ecclesiale, sono particolarmente complessi. La tradizione riconduce tali rapporti a due sole fasi: la persecuzione e, con l’editto di Costantino, il trionfo del Cristianesimo. Questo schema vale a ribadire la potenza della Verità rivelata sul potere umano e sulla storia. Le cose, in realtà, sono più complesse.

Se si assumono i dati storici semplicisticamente, si può facilmente ricostruire un orientamento persecutorio dell’Impero romano nei confronti del Cristianesimo che da Nerone giunge a Diocleziano, e, con il suo incremento progressivo, urtando contro l’eroica resistenza dei martiri cristiani, determina alla fine il trionfo della nuova religione.

In realtà questa linea continua non esiste. Sia la persecuzione di Nerone sia le misure restrittive adottate da Domiziano sia le disposizioni di Traiano che obbligano i cristiani ad attestare il loro lealismo nei confronti dell’Imperatore rappresentano episodi marginali. Solo con Marco Aurelio, tra il 160 e il 180, dopo decenni di latenza del conflitto, si definisce una recrudescenza dell’attività persecutoria. Segue poco meno di un secolo di relativa tranquillità. La persecuzione riprende con Decio a metà del III secolo, prosegue con Valeriano e trova il suo acme con Domiziano a cavallo tra il III e il IV secolo.

L’alternanza di fasi di relativa tranquillità e di conflitto si spiegano storicamente. Il paganesimo romano è incentrato sulla pax deorum, vale a dire sull’ampliamento del Pantheon nel quale confluiscono le divinità e le religioni dei popoli conquistati. Non c’è alcuna intolleranza romana nei confronti dei nuovi culti, tranne che essi non comportino una contestazione del potere imperiale. Ora il Cristianesimo, fino alla metà del III secolo, è una religione invisibile. Nulla distingue pubblicamente i cristiani dagli altri cittadini. Sulla scorta dell’insegnamento di Paolo, essi si integrano nella struttura sociale e istituzionale rispettando le leggi dello Stato. Certo, agli occhi del ceto colto romano, orientato ormai a riconoscere nelle varie divinità l’espressione di un unico Dio trascendente, risulta ripugnante il tema dell’incarnazione e della resurrezione, come pure dare valore ad una fede accolta dagli strati più infimi della popolazione.

Il nodo della persecuzione sta però nella crisi dell’Impero maturata intorno alla prima metà del III secolo, dopo due secoli di relativa pace e continuità dinastica. La crisi si riconduce sia all’egemonia dell’esercito che, dal 235 al 270, dà luogo ad una serie pressoché ininterrotta di colpi di stato militari, sia all’invasione da parte di "barbari" delle province occidentali e orientali dell’Impero. La soluzione della crisi passa attraverso la restaurazione degli antichi valori, dei mores maiorum, che comporta tra l’altro la ripresa dei culti tradizionali e la convalidazione del fondamento divino del potere imperiale. E’ su quest’ultimo punto che si definisce il conflitto. Chiamati a testimoniare la loro fedeltà formale all’Imperatore, officiandolo in quanto rappresentante della divinità, i cristiani oppongono in maggioranza un rifiuto.

Si tratta di un atteggiamento che la Tradizione ecclesiale ricostruisce come eroico. Sul piano personale è indubbio che la testimonianza di fede, che ha visto numerosi vescovi dare un esempio di straordinaria compostezza nell’affrontare il martirio, sia una pagina gloriosa del Cristianesimo. Sul piano culturale, essa però va ricondotta più che ad una fedeltà alla fede, ad un’incomprensione profonda dei cristiani nei confronti delle esigenze dell’Impero. Questo ovviamente non riguarda l’aberrante persecuzione neroniana, ma quelle che si sono succedute dalla metà del III secolo fino al 311.

La proverbiale tolleranza romana in tema di religione è stata letteralmente sfidata dai cristiani. La richiesta dei Romani, da Decio a Diocleziano, che fa capo ad uno stato di crisi, è meramente formale. Il culto dell’Imperatore è semplicemente un modo per attestare la fedeltà dei sudditi all’ordine che egli rappresenta, che coincide con l’unità dell’Impero. Ai cristiani non si chiede di abiurare la fede, ma di riconoscere che l’Imperatore, rappresentando tutte le divinità, rappresenta anche il loro Dio. Il rifiuto dei cristiani è deciso e insormontabile. Esso pertanto, attribuito dai Romani ad una folle ostinazione, non può essere interpretato che come espressione di ribellione nei confronti dell’autorità costituita. I cristiani, in breve, pretendono che l’Imperatore sia cristiano per fare atto di fedeltà nei suoi confronti. Sono insomma affetti da una sorta di fanatismo che impedisce loro di capire la necessità di ricompattare la società romana intorno ai suoi valori tradizionali nell’ottica di una vasta riforma dell’Impero.

Il problema è che quei valori non hanno più un solido fondamento sociale e culturale, mentre il Cristianesimo si è diffuso ed è dotato di un’organizzazione gerarchica e comunitaria che compensa le lacune della cultura imperiale. Esso sbanda sotto i colpi della persecuzione: innumerevoli sono i martiri, ma innumerevoli sono anche coloro che abiurano (i lapsi). Se la persecuzione fosse proseguita, il Cristianesimo che, all’inizio del IV secolo, riguardava solo il 10% della popolazione, sarebbe rimasto un movimento religioso minoritario.

La svolta avviene in nome di una duplice necessità: l’Impero, posta la presa sempre minore dei valori tradizionali, ha bisogno di un nuovo ordinamento culturale; il Cristianesimo di un sostegno politico che ne favorisca a diffusione. E’ questa duplice necessità a promuovere il trionfo del Cristianesimo.

La tradizione vede nella fine della persecuzione un miracolo. In realtà la persecuzione finisce prima dell’editto di Costantino. E’ l’imperatore Galerio, uno dei successori di Diocleziano, a ordinarne la sospensione con un editto del 311. In esso l’imperatore non rinuncia a definire folle il contegno dei cristiani ribelli. L’editto è un atto di clemenza, che corrisponde in realtà all’impotenza dell’ordinamento imperiale nei confronti della comunità cristiana.

3. La svolta di Costantino

La conversione di Costantino è un fatto storico controverso. Se essa fosse avvenuta in seguito ad un sogno che lo indusse ad adottare il simbolo cristiano e ad attribuire a questo la vittoria su Massenzio, sarebbe avvenuta non in nome del Dio d’amore cristiano ma del Dio degli eserciti di biblica memoria. Anche se, dato il comportamento di Constantino, non sembra possibile pensare ad una scelta meramente opportunistica, è fuor di dubbio che la sua adesione al Cristianesimo non è mai stata di natura teologica. Costantino è un uomo di governo che vuole l’unità dello Stato e, a tal fine, identifica nel Cristianesimo l’unica religione che ha un respiro universalistico.

Alla luce di questo, non v’è da sorprendersi che, come ci si sarebbe aspettato da un cristiano convertito per l’illuminazione della fede nel vero Dio, egli non tronca repentinamente con la tradizione. Certo, entrando trionfalmente a Roma, non rende onore a Giove capitolino, ma non depone mai il titolo di pontefice massimo, lascia che i sacerdoti pagani continuino a celebrare le loro cerimonie, consente che sulle monete restino le immagini delle antiche divinità, non rifiuta la collaborazione dei pagani e la loro presenza a corte e nelle cariche più alte.

Avendo scelto di eleggere il Cristianesimo a religione futura dello Stato, Costantino è comunque coerente nel sostenere la nuova religione come alleata del potere imperiale e come fattore di unificazione dell’Impero. Accreditano questa coerenza non solo l’inserimento nell’edilizia pubblica della costruzione di chiese, spesso fastose e monumentali. Vivamente interessato a mantenere l’unità della chiesa cattolica, Costantino interviene anche decisamente nelle controversie religiose che caratterizzano il IV secolo.

Queste controversie attestano che l’edificio dottrinario del Cristianesimo è ancora precario.

La prima controversia fa capo all’atteggiamento da tenere nei confronti di coloro che, nel corso delle persecuzioni, hanno abiurato la fede (i lapsi). La tendenza conciliativa della chiesa romana attiva in Africa un movimento – il donatismo – che propugna una radicale intransigenza, identificando la vera chiesa in quella dei puri, dei martiri e dei santi. E’ evidente che la controversia si riconduce ad un problema di antica data: quello evangelico dei molti chiamati pochi dei quali sono eletti. Ma è un problema fuori tempo perché l’aspettativa apocalittica è tramontata, la Chiesa si è definita già cattolica e l’Imperatore ha bisogno che essa vicari nel modo più esteso possibile la crisi dei valori tradizionali pagani. Non è un caso dunque che Costantino intervenga con misure coercitive e persecutorie contro i donatisti. Lo scisma però sopravvive alla persecuzione e si estingue solo nel 429 con l’occupazione vandale dell’Africa.

Ancor più difficile da governare risulta la controversia ariana, che genera la prima grande frattura tra chiese orientali e chiese occidentali. Avviata da un dotto libico elevato al sacerdozio in tarda età, l’arianesimo pone in gioco il dogma trinitario, negando la divinità di Gesù e la sua consustanzialità rispetto al Padre. Unico e indivisibile, Dio non può condividere con altri la propria essenza. Gesù, secondo la sua stessa definizione di Figlio dell’Uomo, è sì Figlio di Dio ma nel senso di essere stato da lui generato prima della creazione del mondo. Una creatura, dunque, superiore e anteriore a ogni altra, creata fuori dl tempo, di assoluta perfezione, ma che è finita e distinta dal Padre. Ario non giunge a negare la Trinità, ma ne concepisce le tre persone come distinte e di natura diversa.

Costantino intuisce subito la possibilità che l’arianesimo disgreghi l’unità della Chiesa. Egli convoca nel 325 un sinodo a Nicea, di cui assume la presidenza. Il suo intento è di realizzare un accordo il più ampio possibile tra i vescovi. Per ciò egli accetta una professione di fede che, pur modificata in un ulteriore concilio del 381, diventa il fondamento dogmatico dell’ortodossia cristiana, il Credo ancora in vigore.

Ciononostante, l’arianesimo non è debellato. La chiesa occidentale, con l’Egitto, rimane niceana, mentre quella orientale filoariana.

Sono occorsi dunque più di tre secoli per giungere ad un’organizzazione dottrinale intrinsecamente coerente.

4.

La lotta contro il paganesimo, però, non è vinta. Nelle regioni rurali, in particolare, ove risiede una quantità enorme della popolazione imperiale, l’attaccamento ai culti pagani risulta tenace. Per scalzare la resistenza del paganesimo, religione mondana aperta, per via delle influenze orientali, ai riti orgiastici, occorre aprire la mentalità popolare sull’orizzonte dell’aldilà.

Fin dall’inizio, il messaggio cristiano ha avuto una valenza soteriologica, incentrata sulla morte come rinascita, passaggio ad una vita diversa, momento di vittoria e di liberazione per il credente. E’ dal IV al Vi secolo, però, che la concezione cristiana dell’aldilà assume una forma suggestiva e, nello stesso tempo, terrificante.

La suggestione è legata al paradiso, che, presentato alle persone colte come un luogo risplendente di fulgida luce e della visione beatifica di Dio, diventa per il popolo una regione sublime, dove l’aria è infinitamente dolce e la primavera eterna.

Ma il fascino del paradiso non basta. Per scongiurare la tendenza dell’uomo al peccato, occorre definire in termini più incisivi e drammatici il destino che spetta a coloro che muoiono peccatori. E’ in questo periodo che si definisce la teologia dell’inferno, universo materiale ed eterno le cui componenti essenziali sono il verme e il fuoco. E’ su fragili basi scritturistiche che la tradizione cristiana, destinata a crescere nel corso del tempo, costruisce un enorme edificio infernale, che diventa un’arma pastorale di grande rilievo.

Complementarmente alla teologia dell’inferno, cresce anche e si diffonde la teologia del demonio. Maestro di nequizie, il demonio diventa l’avversario dell’uomo, la causa e l’origine di ogni suo male e della sua perdizione.

La teologia demonologica identifica negli dei pagani i rappresentanti del demonio. Sono essi, impotenti a dare la felicità, a tentare l’uomo per mantenerlo nell’idolatria, il peggiore peccato contro l’unico Dio. E’ questa l’arma terrificante che, lentamente, incide sulla mentalità popolare e la rende cristiana. E’ il terrore, insomma, e non l’amore di Dio che estirpa le radici del paganesimo.

5.

E’ con un editto del 380 che l’Imperatore Teodosio impone a tutti i popoli la formula di fede niceana e condanna i folli e insensati che accettano l’infamia dell’eresia ariana. La nuova versione del Credo niceano risente della lunga elaborazione teologica antiariana. Essa integra il dogma trinitario destinato a durare sino ad oggi, estendendo il consustanziale a tutta la Trinità e definendo uguali nella divinità tutte e tre le persone, compreso lo Spirito Santo. Con l’editto di Teodosio il Cristianesimo diventa religione di Stato. Ciò però non pone fine alle controversie dottrinarie: le rende casomai più aspre per via del sostegno politico all’ortodossia.

La diffusione del Cristianesimo presso le masse ibrida la fede con la loro cultura pagana e con le loro superstizioni. E’ un aristocratico spagnolo, Priscilliano, a proprugnare il ritorno ad una dottrina ascetica di grande rigore. La reazione della Chiesa è drammatica. Nel 385 Priscilliano viene messo a morte. E’ il primo eretico a sperimentare la violenza della Chiesa sostenuta dal potere, e l’intolleranza dovuta all’irrigidimento dogmatico.

Anche la lotta al paganesimo si attesta sul registro dell’intolleranza. L’editto teodosiano comporta la condanna di ogni altra fede. Nel 385 la pena prescritta per coloro che offrono sacrifici divinatori è il supplizio della croce.

Che l’edificio dottrinario, nonostante il Credo niceano, non sia ancora del tutto saldo, è attestato ancora nel V secolo da due movimenti ereticali

Il primo è legato a Pelagio, un monaco di origine britannica, che, sulla base del presupposto per cui il peccato di Adamo non può essere stato imputato da Dio a tutta l’umanità, rivaluta la responsabilità e il libero arbitrio dell’uomo nel perseguire la perfezione morale. Il pelagianesimo è una delle poche dottrine, nel corso della storia del Cristianesimo, che assegnano alla natura umana uno statuto positivo. Certo, l’uomo, per raggiungere la salvezza, deve lottare contro il male, ma egli non ne è inquinato alla radice. Il pensiero di Pelagio, però, comporta un ridimensionamento dell’importanza che il Cristianesimo, da Paolo di Tarso in poi, assegna all’opera redentrice di Cristo. Esso, tra l’altro, implica anche, rievovando pericolosamente le dottrine pagane e stoiche della morale naturale, la possibilità che gli uomini possano giungere alla salvezza anche al di fuori della Chiesa.

E’ Agostino d’Ippona a cogliere il potenziale eversivo del pelagianesimo sotto il profilo cristologico. Se la natura umana ha in sé, in virtù del libero arbitrio, un potenziale salvifico, Gesù, pur riconosciuto da Pelagio come Figlio di Dio, è il Maestro che indica la via della perfezione, non il Salvatore che, con il suo sacrificio, cancella il peccato originale e affranca l’umanità dalla morte. Contro il pelagianesimo, Agostino insiste sull’indegnità dell’uomo in seguito al peccato originale e sulla sua incapacità di operare il bene e di salvarsi senza l’aiuto divino. In quest’ottica, l’unica libertà dell’uomo è quella di sottomettersi a Dio, fidando sulla sua grazia. La salvezza non è nel potere dell’uomo, ma nell’imperscrutabile giudizio divino. La sorte di ogni essere umano è predestinata.

A posteriori la dottrina di Pelagio sembra, nell’ottica della fede, infinitamente più ragionevole di quella di Agostino. Non è sorprendente, dunque, che, nel giro di due decenni, essa viene alternativamente condannata e riabilitata da vescovi e papi. Dato il turbamento che pervade la Chiesa, interviene addirittura l’Imperatore Onorio a sancire, con un editto del 418, la condanna del pelagianesimo come superstitio, vale a dire eresia. Cionondimeno l’influenza della dottrina di Pelagio, almeno sulla chiesa orientale, rimane viva ancora per un secolo.

Il secondo movimento ereticale del V secolo è legato a Nestorio, vescovo di Costantinopoli, e riguarda un tema rimasto sino allora in sospeso: il rapporto in Cristo tra le due nature, la divina e l’umana. Nestorio prende spunto dal fatto di non accettare la definizione di madre di Dio attribuita alla Vergine, che comporta il rischio di attribuire alla natura divina nascita e morte, capacità di soffrire e di mutare. Su questa base egli ammette due nature in Cristo, quella divina e quella umana. A Nestorio si oppone Cirillo, vescovo di Alessandria, che sostiene l’esistenza di una sola natura, quella divina.

E’ evidente lo spessore teologico del problema. Attribuendo due nature distinte a Cristo, questi è un uomo nel quale abita la divinità: ma come può un uomo salvare l’umanità dal peccato? Attribuendo viceversa la sola natura divina, l’umanità di Gesù si riduce ad apparenza, e viene meno la fede nel Dio incarnato.

Il dibattito tra i due schieramenti — i difisiti e i monofisiti — è estremamente aspro, e si conclude solo nel 451, allorché il concilio di Calcedonia approva una formula compromissoria che riconosce in Cristo due nature, l’umana e la divina, integre e complete, unite in una sola persona che è consustanziale al Padre secondo la divinità e consustanziale all’uomo secondo l’umanità.

La dottrina di Calcedonia conclude il tragitto dell’ortodossia dogmatica, ma esso non produce l’unità della Chiesa, bensì pone i presupposti della scissione tra Chiesa occidentale e Chiesa orientale destinata a realizzarsi ulteriormente.

Gennaio 2005